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L’Astronomia
dei Celti
1.
I
Celti come insieme di popoli. Celti
è il nome dato inizialmente dai Greci e dalle altre genti d’Europa
a quelle popolazioni originarie della Boemia e della Germania
meridionale che nel corso del primo millennio a.C. si diffusero
verso ovest, nell’odierna Francia (da loro chiamata Gallia)
e nelle isole britanniche, e verso sud stanziandosi in Spagna (i Celtìberi),
in Italia centrosettentrionale, in Grecia e in Asia Minore dove
diedero il nome ad una regione, la Galazia (o Galatia). I Romani
preferirono chiamarli con il nome di Galli,
mentre presso i Greci erano anche conosciuti come Galàtai
o Gàlati (abitanti della
Galazia). Il loro nome originario era Keltòi, Celti. Essi erano in realtà una miriade di tribù
tenute insieme da una lingua comune, da forme artigianali, strutture
militari e credenze religiose sufficientemente unitarie da essere
riconosciute. Per tale motivo è più corretto parlare di cultura
celtica piuttosto che di vero e proprio gruppo etnico. “Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae,
aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli
appellantur.” (La
Gallia nel suo insieme è divisa in tre parti, una abitata dai
Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza da coloro che nella
propria lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli) I
Celti, essenzialmente per la mancanza di una tradizione scritta,
hanno sempre destato nelle altre antiche popolazioni una profonda
curiosità mista ad un arcano timore. Il loro nome, le loro gesta
militari, i loro usi e costumi, sono sempre stati avvolti come da un
alone di mistero e di leggenda; le loro stesse origini si perdono
nella nebbia della protostoria europea. Le nostre attuali conoscenze
della cultura di questo insieme di popoli, le dobbiamo a vicende di
ordine cronologico, essendo la storia celtica coincisa con l’ascesa,
il dominio ed il declino dell’Impero Romano. La loro struttura
sociale, le loro gesta guerriere e il sapere dei loro sacerdoti, i Druidi,
traspaiono dagli scritti degli autori di epoca classica (greci e
romani) e dei primi monaci irlandesi; soprattutto questi ultimi, per
impostazione culturale, possono essere considerati i diretti eredi
dei druidi celtici.
Socialmente erano divisi in tribù e villaggi fortificati
pressoché autonomi (gli Oppida), comandati da aristocratici, i quali venivano di preferenza
costruiti su ripide zone collinari (i cosiddetti Hillfort). Tributavano grande onore a cantori, poeti, filosofi,
indovini e ai sacerdoti. Caratteristica spiccata della loro
religiosità era il culto dei morti, la fede nell’immortalità
dell’anima e la credenza in una triade principale di dei, che
influiranno notevolmente sul Cristianesimo di Stato attuato secoli
dopo dall’imperatore romano Costantino. Aspetto centrale della
cultura celtica fu la musica, il canto, la scultura e l’artigianato
di manufatti in oro, argento e rame, tra i quali oggetti ornamentali
e torques, una sorta di
collane rigide che i guerrieri portavano al collo. Alcuni di tali
manufatti sono il frutto di diverse tecniche di lavorazione del
metallo, all’epoca ancora poco conosciute: filigrana, smaltatura,
incisione in profondità, imbutitura A differenza della
contemporanea arte greco-romana che cercava di rappresentare la
realtà, quella celtica fu soprattutto un’arte decorativa dove le
forme viventi erano spesso stilizzate ed abbondavano gli elementi
simbolici che avevano spesso una funzione magico religiosa. La loro
creatività in senso estetico ed artistico, la loro genialità in
campo tecnico, arricchirono senza dubbio la civiltà europea di
quella vivacità quasi sconosciuta ai popoli mediterranei.
Purtroppo,
questa genialità artistica e culturale era associata al loro
carattere nomade e guerriero. Il loro affacciarsi sull’Europa a
partire dall’area danubiana tra il 900 e il 700 a.C., e sull’Italia
tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., è rappresentato
dagli storici antichi come un’invasione talmente improvvisa ed
inarrestabile che la stessa Roma, dopo la sconfitta dei propri
eserciti ad opera del condottiero Brenno
(490 a.C.) dovette sopportare l’occupazione della città e l’assedio
del Campidoglio per sette mesi. Una delle poche eccezioni allo
strapotere celtico di quell’epoca fu rappresentata da una
popolazione d’origine pre-indoeuropea: i Liguri. Sembra che questi
ultimi fossero generalmente marinai ed agricoltori di non alta
statura, ma agili, muscolosi e talmente pericolosi in battaglia che
perfino i Celti esitarono a scontrarvisi, preferendo piuttosto
coabitare più o meno pacificamente con loro (si parla in tal caso
di Celto-Liguri).
Autori romani descrivono i Celti con una singolare commistione di qualità e debolezze, virtù ed ingenuità. Erano noti per l’alta statura, per i lunghi baffi e capelli, per il loro coraggio e per la furia con la quale, a volte quasi completamente nudi e dipinti, si buttavano nella battaglia senza circospezione, menando colpi alla cieca ma stancandosi anche molto rapidamente; una condotta diametralmente opposta alla fredda e ragionata tattica degli eserciti romani. Erano anche noti per la leggerezza con cui si abbandonavano a razzie e gozzoviglie dopo ogni battaglia, incuranti del possibile ritorno del nemico. Purtroppo la loro invasione coincise con l’inizio delle guerre di espansione di Roma, che dopo l’iniziale insuccesso del 490 a.C. ebbe lentamente ma inesorabilmente la meglio. Sotto la spinta degli eserciti romani, molte tribù perciò migrarono verso l’Europa nordoccidentale, stanziandosi là dove i Romani non riuscirono ad arrivare in forze, nella Scozia ed in Irlanda. Queste zone rimangono tuttora le eredi della cultura e della storia di questo popolo
2.
I
Druidi: tenutari del sapere. La società celtica era strutturata verticalmente secondo tre funzioni: la sacerdotale, la regale-guerriera e la lavorativa. I sacerdoti, o Druidi, erano i tenutari del sapere filosofico, giuridico, metafisico, scientifico e religioso. L’esatta etimologia del termine druido è ancora controversa. Per molti secoli si è adottata la spiegazione che ne dava lo storico e naturalista latino Plinio il Vecchio nella sua opera Historiae Naturalis (XVI, 249). Parlando della venerazione dei druidi per la quercia e per il vischio che su di essa si formava, egli scrisse: essi non compiranno alcun rito senza la presenza di un ramo di questo albero, al punto che sembra possibile che i druidi derivino il loro nome dal greco” Se ne era quindi concluso che la parola druido provenisse dal termine greco drus, che significa quercia. D’altro canto però, sembrava molto improbabile che il termine druido, parola tipicamente ed esclusivamente celtica, derivasse dal greco. Recentemente perciò ne è stata data un’altra versione partendo dalla forma proposta da Giulio Cesare, druis, che corrisponde all’antico gaelico (la lingua dei Celti d’Irlanda) drui e all’antico celtico druwid (plurale druwides), parola che può essere scomposta in due termini: dru, prefisso accrescitivo di significato superlativo, e wid, termine apparentato alla radice indoeuropea del latino videre (vedere) e del greco idein (vedere, sapere). Il significato appare dunque chiaro: i druidi sono i molto veggenti o i molto sapienti, significato che meglio si conforma alle diverse funzioni da loro espletate. I druidi erano quindi gli uomini del sapere, coloro che sapevano leggere il grande libro della natura e dei destini, interpretandoli per la guida del proprio popolo. Gli autori greci e latini li definirono talvolta filosofi, altre maghi; ma si parla di loro anche come di poeti, cantori (bardi), indovini (vates), medici, teologi (sacerdos), fisiologi, seppure con sfumature linguistiche diverse. In somma, i druidi erano i depositari di una tradizione complessa che copriva ogni campo dello scibile. Purtroppo, dal momento che le loro conoscenze e le tradizioni erano trasmesse da una generazione all’altra esclusivamente con insegnamenti di tipo orale, con la romanizzazione dei Celti, tali conoscenze andarono in gran parte perdute. Solo dopo la cristianizzazione dell’Irlanda alcuni druidi, convertiti e divenuti monaci, liberati dal divieto “magico” della scrittura, affidarono ciò che restava della tradizione celtica a dei preziosi manoscritti. Ma perché tramandare le proprie conoscenze solo per via orale e non tramite documenti scritti ? Vi sono a tal riguardo due motivazioni, anche se di ordine diverso. Per i Celti la natura era una cosa viva e in continua evoluzione; scrivere significava congelare un concetto impedendone l’evoluzione. Lo studioso Jan de Vries sostiene che “una tradizione trasmessa oralmente si rinnova ad ogni generazione: l’antico contenuto si mantiene intatto e allo stesso tempo si adatta continuamente alle mutevoli circostanze. E proprio per questo i druidi poterono mantenere il passo con le loro progressive conoscenze”. Ma vi è un’altra spiegazione più “terrena” per cui non si usavano documenti scritti. Ciò permetteva ai druidi di detenere la quasi totalità dei poteri spirituali e temporali nella società celtica. Questo si intuisce dalle stesse parole di Giulio Cesare: (De Bello Gallico, VI, 13)
Ma
quali erano le reali conoscenze dei druidi ? In particolare, quale era
il loro computo del tempo ? Come calcolavano gli anni e le stagioni ?
Quali erano le loro conoscenze astronomiche ?
Prima di rispondere a queste
domande, bisogna fare chiarezza innanzi tutto su una cosa. Sino alla
fine del XIX secolo, l’esistenza dei monumenti megalitici europei
(ad esempio Stonehenge in Inghilterra, Carnac in Bretagna) era stata
messa in relazione con il druidismo. Va ricordato però che la
datazione al radiocarbonio (C-14) fa risalire questi monumenti ad un
periodo che va dal IV al II millennio a.C., mentre i Celti sono
apparsi sulla scena europea soltanto alla fine dell’Età del Bronzo,
intorno al 900 o al 700 a.C.; quindi i monumenti megalitici
appartengono ad un periodo che possiamo definire “pre-celtico”. L’epico
racconto irlandese de “La
battaglia di Mag Tured” descrive una delle popolazioni già
insediate in Irlanda prima dell’arrivo della tribù celtica dei Gaeli;
questi sono chiamati Tuatha Dé
Danann (letteralmente “genti della dea Dana”), i quali,
secondo lo stesso racconto erano sbarcati in Irlanda nel giorno di Beltaine
(primo maggio) che molto influirà sul calendario e sulle feste dei
Celti. I Tuatha Dé Danann vengono descritti come esseri di origine
divina, i quali, oltre ad essere brillanti guerrieri, eccellevano in
religione, magia, carpenteria, metallurgia, medicina e in tutti gli
altri rami della scienza. Tutti questi aspetti sono ampiamente
incarnati nello spirito della tradizione druidica.
Quindi,
se le tradizioni popolari e i testi mitologici irlandesi hanno messo
in relazione queste due epoche, vuol dire che i Celti devono aver
raccolto una certa eredità dalle popolazioni che avevano trovato già
insediate nei territori da loro poi occupati, abitanti con i quali,
pacificamente o no, formarono nuove comunità. In effetti, i Celti,
che non avevano mai costruito templi prima di subire l’influenza
greco-romana, devono aver reimpiegato o riutilizzato le strutture
megalitiche già esistenti. In fondo, la maggior parte delle cappelle
cristiane sono sorte sul luogo dove si professavano i culti più
antichi, sia greco-romani che celtici o preistorici.
In mancanza di strutture preesistenti, dove officiavano dunque i
druidi alle loro pratiche sacre ? Tito
Livio, storico romano, fa riferimento ad un tempio della tribù
celtica dei Boieni; un altro storico, Polibio,
menziona un tempio degli Insubri,
ma ogni volta il riferimento è ad un luogo nella foresta senza alcuna
precisazione di un suo aspetto o di una sua architettura. Giulio
Cesare nel suo De Bello Gallico parla
solo di un “locus
consecratus” (VI, 13, 16), che non designa in alcun modo un
tempio secondo i canoni romani. Anche in Irlanda non sono stati
trovati templi costruiti. Ciò vuol dire che le cerimonie si
svolgevano all’aperto, su dei tumuli sacri o al centro di boschi;
luoghi che potevano o meno essere contrassegnati con pilastri o con
pietre disposte a cerchio.
Dione
Cassio, che
descrisse gli usi e i costumi dei Britanni, menzionò, come altri autori latini, dei “boschi sacri”
utilizzando il termine greco alsos,
equivalente delle parole latine lucus
e nemus (cielo). Il
santuario celtico per eccellenza doveva quindi essere stato il “Nemeton”, termine che
designa una radura sacra, da cui era possibile vedere il cielo, al
centro di una foresta o di un bosco. Questa interpretazione viene
corroborata dalle parole di un altro storico latino, Marco
Anneo Lucano, il quale, parlando di un santuario gallico nei
pressi di Massilia (l’odierna
Marsiglia, in Francia), lo colloca all’interno di una foresta:
“É là che
vengono praticati degli orribili sacrifici, e che si trovano delle
statue grossolane che rappresentano gli dèi … I Druidi adorano gli
dèi nei boschi senza fare uso di templi” Dal momento che molte cerimonie erano officiate in boschi di quercia, alcuni studiosi contemporanei (Jan de Vries, Gerhard Herm) sono più propensi ad usare il termine “Drynemeton”, che deriva dalla parola greca drys o drus (quercia). Secondo Jean Markale, studioso di letteratura e leggende celtiche, i Celti devono aver avuto la sensazione che era impossibile confinare gli dèi in un luogo chiuso; pensavano piuttosto che esistessero luoghi, simbolici o reali, dove il mondo degli umani poteva aprirsi al mondo degli dèi, e viceversa. Il Nemeton era questo luogo di scambio sacro, poteva essere una radura nella foresta, la foresta nel suo insieme, la sommità di un tumulo o un’isola in mezzo al mare. Se poi in questo luogo sacro c’era una sorgente, esso era per i druidi un posto particolarmente privilegiato, poiché oltre alla comunicazione della terra con il cielo (nem), si poteva usufruire del contatto con le forze vive e fecondanti sorte misteriosamente dal centro della terra. 3. I Druidi: osservatori del cielo. I riferimenti diretti ai druidi come osservatori dei fenomeni celesti sono estremamente scarsi, a causa del divieto alla scrittura da loro adottato. Plinio il Vecchio, parlando del rituale della raccolta del vischio, pianta parassita che si sviluppa di preferenza sulle querce e che aveva un peso considerevole nelle feste liturgiche celte, dice: “I
Druidi non hanno niente di più sacro del vischio e dell’albero che
lo porta, e si suppone sempre che questo albero sia una quercia. Essi
lo raccolgono il sesto giorno della luna … perché la luna ha già
una forza considerevole senza essere ancora al centro del suo corso”.
Il testo di Plinio non
menziona in alcun modo che la raccolta del vischio fosse fatta solo al
solstizio d’inverno, come alcuni vorrebbero far credere per l’analogia
dell’uso del vischio a Natale o a Capodanno. Plinio specifica che la
raccolta avveniva il sesto giorno della Luna, il che potrebbe
verosimilmente essere durante tutto l’arco dell’anno. Inoltre, l’usanza
del Capodanno al primo di gennaio è relativamente recente. Plinio,
continuando il suo racconto, afferma inoltre che il druido in quell’occasione
doveva indossare un abito bianco e spezzare il vischio con un falcetto
d’oro, raccogliendolo in un panno bianco. Alla raccolta del vischio
faceva seguito il sacrificio di due tori bianchi molto giovani. Il
colore bianco che permeava il rito era il colore sacerdotale per
eccellenza. Il falcetto d’oro era un richiamo al simbolismo
luni-solare. La Luna al sesto giorno di vita si presenza per l’appunto
come una falce essendo in fase crescente ma non ancora al primo
quarto. L’oro rappresentava invece il colore del Sole che splende.
Da quanto detto sembra plausibile pensare che i druidi, per eseguire questi riti particolari, osservassero con attenzione le fasi lunari e che seguissero il percorso nel cielo del nostro satellite. Quindi, la notte era per i Celti un momento particolarmente propizio per celebrare i loro riti. Nella nomenclatura degli dèi celtici, fatta da Giulio Cesare, figura il dio Dagda (chiamato in alcuni casi Gargantua), padre di tutti, dio della sessualità e della prosperità; dio dalla doppia clava, dall’arpa magica e dal calderone. Come la sua clava era capace di uccidere e dare la vita, così egli assumeva la doppia immagine di Juppiter, dio della vita e signore del cielo, e di Dis Pater, dio della morte, signore della notte e del mondo sotterraneo.
(De Bello Gallico, VI, 18) Ciò rende conto di un gran numero di costumi notturni dei Celti e sul loro uso di un calendario, basato, non sul ciclo solare di giorno-giorno, ma di un ciclo lunare notte-notte. Ad avvalorare questa idea sono venuti gli studi di uno tra i più grandi archeoastronomi europei: Clive Ruggles. Accanto ai grandi megaliti pre-celtici, come quelli di Stonehenge (Inghilterra) o di Newgrange (Irlanda), chiaramente correlati a fenomeni solstiziali solari, Ruggles ha scoperto che esistono numerosi altri piccoli siti (circa un centinaio) dalla forma simile, confinati in aree geografiche relativamente piccole, che mostrano evidenti linee di orientazione. Uno di questi gruppi è costituito dai cerchi di pietra della Scozia nord orientale. Si tratta di anelli di pietre erette caratterizzati dalla presenza di una lastra orizzontale reclinata posta trasversalmente e fiancheggiata da due pilastri verticali. Queste strutture si estendono per un’area di circa 400 chilometri quadrati e sembrano centrati su un sito ad ovest di Aberdeen. L’orientazione delle lastre reclinate è significativamente orientata verso il limite meridionale della Luna nascente o calante, e sembra quindi verosimile che tali siti venissero usati per stabilire quando la Luna si avvicinava alla sua posizione più meridionale (le lastre orientate verso sud) e a quella più settentrionale (quelle orientate verso nord), durante un ciclo che dura 18,6 anni. Simili strutture sono presenti anche in Irlanda, nelle contee di Cork e del Kerry. Sembra quindi plausibile che, mentre i siti megalitici più grandi avevano a che fare con determinate posizioni solari, questi siti più piccoli servissero a riti legati alla posizione della Luna. I Celti, eredi di queste culture, continuarono ed ampliarono sicuramente queste conoscenze, arricchendole delle proprie tradizioni. Se possiamo quindi immaginare i druidi intenti ad osservare il cielo (anche allo scopo di trarne presagi), siamo in grado di sapere quali erano le loro conoscenze astronomiche ? 4. Il calendario e le feste celtiche. Nel 1897, nelle vicinanze di Coligny, in Borgogna (Francia), furono ritrovati alcuni frammenti di una tavola bronzea risalente al I secolo a.C. Questo documento, scritto in lingua gallica alla maniera latina, era un calendario. Dalla sua decifrazione è emerso che l’anno celtico era basato su un ciclo di 62 mesi lunari (da luna nuova a luna nuova). Ogni mese contava o trenta o ventinove giorni, ed era ulteriormente suddiviso in due sezioni di quindici o quattordici giorni. Il giorno andava, come tuttora per ebrei e musulmani, dal sorgere della luna al sorgere della luna. Dal momento che tale periodo non era di ventiquattro ore esatte come quello solare, l’anno risultante era di circa 11 giorni più breve del periodo solare che è di 365 giorni. Per riequilibrare il computo dei giorni, i druidi aggiungevano dei mesi intercalari. Il calendario di Coligny, basato su questo computo, consisteva in tre periodi di 12 mesi che venivano compensati con due periodi di 13 mesi: la somma (3 · 12 + 2 · 13 = 62 mesi) dava quasi esattamente il tempo di cinque rivoluzioni solari. La sequenza dei mesi rappresentati nel calendario di Coligny sono riportati nella seguente tabella. Ogni anno era diviso nettamente in due stagioni: l’inverno e l’estate. L’inverno andava dal primo giorno di novembre (festa di Samain), capodanno celtico, al primo maggio (festa di Beltaine); l’estate andava dal primo maggio al primo novembre. A metà delle due stagioni, il primo febbraio e il primo agosto, vi erano altre due feste, rispettivamente quella di Imbolc e quella di Lugnasad. Da ciò si può notare come il calendario celtico non avesse alcun legame con i solstizi o con gli equinozi, dal momento che le feste e le ricorrenze druidiche cadevano circa quaranta giorni dopo questi eventi astronomici.
La festa principale era quella del primo novembre, Samain o Samhuin (si pronuncia “shouinn”) in lingua irlandese e Samonios in gallico, che etimologicamente significa “fine dell’estate”, in altri termini l’inizio dell’inverno. Il primo giorno, o meglio, la prima notte di Samain, segnava anche l’inizio dell’anno celtico, ed era legato alla figura di Dis Pater, dio dell’oscurità, della notte, origine degli esseri viventi e delle cose. Sul calendario di Coligny la festa di Samain è l’unica espressamente indicata nelle annotazioni per tutti e cinque gli anni ivi rappresentati. L’annotazione corrispondente è TRINUX(tion) SAMONI SINDIV(os), che compare in corrispondenza del secondo giorno della seconda quindicina del mese di Samonios, e che è traducibile nella lingua Gallica antica come: “Le tre notti di Samonios cominciano adesso”. Tale festa doveva essere celebrata da ogni membro della comunità celtica e consisteva in un’assemblea in cui si discuteva di affari politici, economici e religiosi, a cui seguivano interminabili banchetti a base di carne di maiale o di cinghiale e di moltissimo vino. Secondo i Celti la carne di maiale aveva il potere di donare l’immortalità. Quanto al cinghiale, era un emblema frequente in Gallia: la quasi totalità delle insegne di guerra rappresentavano tali animali. Sembra che la costellazione dell’Orsa Maggiore fosse chiamata “il Cinghiale”. Quando durante le battute di caccia essi riuscivano ad abbattere un cinghiale particolarmente grande, secondo alcune testimonianze storiche, gli dedicavano un menhir, e praticavano all’animale un buco nella spalla affinché l’anima ne potesse uscire. Nei pressi di Briaglia, a Mondovì (Cuneo), è stato ritrovato un cinghiale in pietra con tali caratteristiche. Il vino, infine, procurava l’ebbrezza, in pratica quello stato di “trance” che permetteva di superare il reale e di raggiungere il sovrannaturale. In effetti, secondo i Celti, il giorno di Samain era il giorno in cui i tumuli degli eroi e degli dèi venivano aperti, dove i morti ed i viventi si potevano incontrare in una specie di compenetrazione di mondi opposti. Questo aspetto della comunione tra mondi diversi, viene ancora oggi conservato nella festa cristiana di Ognissanti (comunione dei santi), che ricorre anch’essa il primo novembre, o nei paesi anglosassoni con i festeggiamenti di Halloween. Tre mesi dopo la festa di Samain, si svolgeva, il primo giorno di febbraio, la festa di Imbolc, sotto il probabile patrocinio della dea Brigit, la casta dea figlia di Dagda, che era rappresentata da una dea dal triplice volto, incarnazione stessa del druidismo. Essa era in primo luogo la protettrice dei poeti, dei maghi, e dei medici. In secondo luogo era la protettrice degli artisti, degli artigiani, dei fabbri e dei guerrieri. La sua figura ha stretta attinenza con quella di Minerva (o Athena) della tradizione greco-romana. Ancora oggi, il primo di febbraio, gli Irlandesi rendono omaggio a Santa Brigitta di Kildare. Quella di Imbolc era una festa a carattere più familiare della precedente. Vi si esaltava il fuoco ma anche l’acqua lustrale come simbolo di purificazione, significato che mantiene ancor oggi la festa cattolica della Candelora. Ben altra rilevanza aveva per i Celti la festa di Beltaine (o Beltane), il primo giorno di maggio. Beltaine significa “fuoco di Bel” ed è un richiamo all’idea di luce e di calore che rifiorisce dopo la fine del lungo inverno. L’inizio dell’estate celtica era il momento cruciale in cui la natura rifioriva e gli armenti uscivano dai rifugi invernali per andare a pascolare nella campagna. I rituali di questa festa vedevano in prima linea i druidi e i re, che accendevano delle enormi pire di fuoco a cui facevano seguito cerimonie, giochi e gli immancabili banchetti (vere e proprie gozzoviglie). La festa si svolgeva sotto il patrocinio del dio Belenos o Belenus (di cui Bel ne è l’abbreviazione), il cui nome significa “brillante”, chiaro collegamento ad un culto solare di epoca preceltica. Il primo maggio è per gli Irlandesi il giorno in cui i Tuatha Dé Danann, ancor prima dell’arrivo dei Celti, sbarcarono in Irlanda e bruciarono le loro navi, esprimendo così la loro intenzione di stanziarsi stabilmente sull’isola per popolarla, una metamorfosi dello stile di vita da nomade e pastorale a stabile ed agricolo. Il nome Belenos ricorre ancor oggi in numerosi toponimi francesi: la celebre fontana di Barenton, nella foresta di Paimpont-Brocéliande, aveva un tempo il nome di Bélenton, da Bel-Nemeton, “radura sacra (o bosco sacro) di Belenos”; il Mont-Saint-Michel du Peril de la Mer, un tempo si chiamava Tombelaine, da Tum-Belen, “tumulo di Belenos”. In questo ultimo caso, la sostituzione del dio “brillante” Belenos con l’arcangelo di luce Michele è un segno della cristianizzazione dei culti celtici. Ma, anche senza andare così lontano, nel paese di Sant’Olcese (Genova) c’è una via intitolata a Beleno. Per quanto riguarda le pire di fuoco che i druidi accendevano in tale occasione, alcuni autori riferiscono di orrendi rituali. Giulio Cesare afferma:
(De Bello Gallico, VI, 16) Marco Anneo Lucano dice la stessa cosa al proposito: “Viene bruciato un certo numero di uomini in una gabbia di legno”. Il greco Strabone afferma che i Galli “…fabbricavano un colosso con del legno e del fieno, vi chiudevano degli animali selvaggi e domestici come pure degli uomini, e bruciavano il tutto”. Questi riti avevano lo scopo di purificazione ma anche di rigenerazione dell’energia che durante il lungo inverno si era come intorpidita. Ancora oggi sopravvivono alcune reminiscenze di questi riti in alcune usanze popolari come i Fuochi di Maggio, i Fuochi di San Giovanni o la Festa delle Fiaccole in Gran Bretagna. Dopo l’estinzione del druidismo, il primo maggio si è imposto come festa popolare dell’attività umana ed economica in quella che è stata fissata come data della Festa del Lavoro. La quarta festa, Lugnasad, cadeva il primo giorno di agosto. Etimologicamente significa “festa di Lug”, ed era stata istituita, secondo i Celti, dallo stesso dio Lug (anche Lugos o Lugu) in memoria della sua madre adottiva Tailtiu, simbolo della Madre-Irlanda. L’animale sacro di cui Lug si serviva era simboleggiato dal corvo. I Galli romanizzati rappresentavano di Lug solo il carattere di protettore dei commerci, mentre i Celti ne esaltavano soprattutto il multiforme carattere di guerriero. Ma Lug non era un semplice guerriero: era un dio-mago (o un dio-druido) che padroneggiava tutte le arti: sapeva suonare l’arpa, comporre poesie, costruire case, forgiare il ferro e vincere le battaglie con la forza e la magia. Nella mitologia irlandese il dio Lug era colui che conosceva tutti i segreti del cielo e della Terra e al quale, curiosamente, era attribuita anche l’invenzione del gioco degli scacchi. Il simbolo astrale di Lug era il Sole e la sua arma preferita era una lancia magica la cui punta rifletteva costantemente l’immagine del cielo stellato. Tutte queste qualità ne fecero il capo degli dei celtici. La figura principale che presiedeva alla festa di Lugnasad era quella del re. In tale occasione vi erano corse di cavalli, certami poetici e giochi non violenti ma, soprattutto, era il re che comandava la raccolta dei frutti e delle messi, essenziali per superare i mesi invernali senza danno.
5. Il cielo, l’universo e i simboli astrali. Nella primavera dell’anno 335 a.C., presso l’attuale passo Sipka, a metà della catena montuosa dei Balcani, le truppe armate di Alessandro Magno il Macedone si scontrarono con la tribù celtica dei Triballi. La battaglia si risolse a favore delle truppe di Alessandro e, quando i Triballi si ritirarono su un’isola del Danubio, i macedoni vi si portarono a remi di notte sorprendendoli nel sonno e piantando le loro insegne sulla riva del fiume come monito per le altre tribù celte. Numerosi capi Celti scesero dal corso superiore del Danubio per conoscere il giovane che li sfidava sul loro territorio. Quando uno dei capi tribù fu alla presenza di Alessandro, quest’ultimo gli chiese cosa i Celti temessero di più, nella speranza, ovviamente, che egli rispondesse: “te !”. La risposta invece fu totalmente diversa; il celta sostenne che la sua gente nulla temeva di più dell’idea “che il cielo potesse cadergli sopra la testa”. L’enigmatica risposta del capo celta dovette destare, tra gli ufficiali di Alessandro, una profonda impressione e, continua tuttora a sconcertare gli studiosi moderni. Quest’apparente battuta rispecchiava una concezione dei Celti sulla loro veduta dell’Universo o, piuttosto, era solo una risposta arrogante ad una domanda tendenziosa ? Purtroppo, poco o nulla si sa di come i Celti concepivano l’Universo. Le prime notizie intorno alle attività legate all’astronomia e portate avanti dai druidi le dobbiamo a Diodoro Siculo, il quale riporta un resoconto di Ecateo di Abdera (III secolo a.C.):
Apollo rappresenta il Sole. Dal momento che il resoconto di Ecateo risale al III secolo a.C., il testo si riferisce sicuramente ai Celti (gli Iperborei), e l’isola di cui si fa menzione potrebbe essere la Britannia. L’identificazione del tempio circolare risulta invece più problematica. Alcuni suppongono che sia quello di Stonehenge, altri quello di Gavrinis, situato sull’omonima isola in Bretagna. Il fatto che, secondo il racconto, la Luna viaggi così rasente l’orizzonte, suggerirebbe invece una località posta ad una latitudine geografica decisamente maggiore, posta all’incirca a 60 gradi nord. Negli anni ’60, l’archeoastronomo Alexander Thom suggerì la località di Callanish, in cui esiste un famoso cerchio di pietre con consistenti orientamenti lunari. Al di là della corretta identificazione del luogo, sta il fatto che Ecateo testimonia delle osservazioni astronomiche condotte dai Celti a scopo religioso e rituale e l’utilizzo di un tempio di forma circolare che, come si è visto in precedenza, i Celti avrebbero ereditato da popolazioni megalitiche preesistenti. In più, la consapevolezza del ritorno della Luna nella stessa posizione apparente in cielo e con la stessa fase ogni 18,6 anni solari, testimonia che nel 300 a.C. i druidi dei Celti insulari conoscevano il Ciclo di Metone (o Ciclo Metonico Lunare). Questo ciclo lunare di quasi 19 anni, pare molto correlato al periodo di addestramento necessario per diventare druidi, che durava 20 anni, e durante il quale gli allievi dovevano memorizzare tutta la scienza druidica. Questo insegnamento comprendeva la conoscenza del cielo e del moto degli astri, come lo stesso Giulio Cesare afferma:
(De Bello Gallico, VI, 14) Ciò coincide con le citazioni di Pomponio Mela, il quale afferma:
(De Chorographia, 3, 2, 18) È interessante il fatto che Giulio Cesare incaricasse Sosigene di preparare una riforma del calendario romano nel 45 a.C., cioè solo dopo il suo contatto con i druidi. Plinio il Vecchio testimoniò il fatto che i Celti utilizzavano un calendario tanto complicato quanto efficiente, di qualità e precisione superiore a quello in uso presso i Romani prima della riforma Giuliana. Esistono inoltre documenti storici che confermano scambi di idee tra i filosofi pitagorici e i druidi, i quali si incontravano nelle colonie greche della Francia meridionale (Massilia). Anzi, da alcuni passi sembrerebbe addirittura che la filosofia greca e pitagorica sia stata profondamente influenzata dalla filosofia e dalla scienza druidica. Diogene Laerzio riferisce:
Timagene (30 d.C.) afferma testualmente:
“…si
sono sforzati con le loro ricerche di penetrare gli accadimenti e i
segreti più sublimi della natura; tra costoro prevalgono, per il loro
genio, i Druidi, così come ha stabilito l’autorità di Pitagora” Ippolito Romano (III secolo) nell’opera Refutatio Omnium Haeresium (Philosophumena, I, 2, 17, I, 25, 1) dice:
“I
Druidi dei Celti hanno studiato assiduamente la filosofia pitagorica…E
i Celti ripongono fiducia nei loro Druidi come veggenti e come profeti
poiché costoro possono predire certi avvenimenti grazie al calcolo e
all’aritmetica dei Pitagorici. Non tralasceremo la loro dottrina,
dal momento che certuni hanno creduto di poter ravvisare diverse
scuole filosofiche presso costoro” In quest’ultimo passo, Ippolito, non solo mette chiaramente in evidenza che i druidi conoscevano la filosofia pitagorica, ma che erano inclini all’uso del calcolo aritmetico al fine di poter predire gli eventi naturali. Anche se poco è rimasto di scritto della loro scienza e delle loro conoscenze astronomiche, le prove di queste non mancano del tutto. Tra i reperti più significativi va annoverato lo “Stagno Monumentale” dell’oppidum di Bribacte, l’antica capitale della tribù degli Edui. In questa città esisteva nel I secolo a.C. una grande vasca in pietra, di forma ellittica, colma d’acqua, che serviva ai druidi per scopi rituali. La progettazione della vasca fu eseguita con criteri astronomici per quanto riguarda la sua orientazione e con criteri geometrici basati sulle terne pitagoriche per quanto concerne la forma e le dimensioni. Tali criteri risultano essere presenti in numerosi altri siti sacri dei Celti sparsi in tutta l’Europa: dal Nemeton di Libenice all’Acropoli di di Zavist (del 500 a.C., in Boemia, nei pressi di Praga). In tutti questi casi, comunque, non vi è alcun orientamento verso la linea naturale del sorgere e del tramontare del Sole ai solstizi o agli equinozi. Analisi condotte al computer hanno fatto avanzare l’ipotesi dell’orientamento di tali strutture in direzione della levata di stelle particolarmente brillanti: da Rigel e Saiph (due delle quattro stelle principali che costituiscono la figura antropomorfa della costellazione di Orione), a Mira, nella costellazione della Balena, e Sirio nella costellazione del Cane Maggiore, solo per fare alcuni esempi. In effetti il cielo più importante per quasi tutte le civiltà antiche era quello visibile all’alba; gli astri che si trovavano in levata elìaca, cioè che si scorgevano poco prima del sorgere del Sole, in quel determinato periodo, assumevano una grande importanza rituale. Ora, dal momento che le quattro principali feste celtiche non corrispondevano a determinate posizioni solari, essendo quasi a metà strada tra solstizi ed equinozi, e si basavano piuttosto sul ciclo lunare, per quale particolarità sono state scelte ? Per rispondere a questo quesito, due astronomi dell’Osservatorio di Brera (Milano), Adriano Gaspani e Silvia Cernuti, hanno eseguito alcune simulazioni al computer, mediante programmi particolarmente precisi che tengono conto del mutare della posizione apparente delle stelle nel cielo: si è potuto così risalire a quattro levate elìache di rilevante interesse in corrispondenza delle quattro feste celtiche. Il cielo attorno al 500 a.C., cioè al tempo dello sviluppo della cultura celtica sul territorio europeo, era leggermente diverso da quello a cui siamo abituati oggi, a causa del fenomeno della “precessione degli equinozi”, secondo il quale l’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre varia con un periodo di circa 23500 anni. Attualmente l’inclinazione dell’asse terrestre è di 23,5°. Per tale fenomeno la stella più prossima al polo nord celeste nel 500 a.C. non era l’attuale stella Polare, ma era Kochab, sempre nella costellazione dell’Orsa Minore, la quale distava dal polo circa 6° d’arco. Ciò rendeva possibile vedere dalla Gallia alcune costellazioni oggi visibili solo dall’emisfero australe. In corrispondenza con il primo di novembre, alla festa di Samain (Trinuxtion Samoni, letteralmente “le tre notti di samonios”), era in levata eliaca Antares, una stella rossa di prima magnitudine, la più luminosa della costellazione dello Scorpione. Ad Imbolc, attorno al 1° febbraio, era in levata eliaca Capella, stella gialla della costellazione dell’Auriga, anch’essa di prima magnitudine. A Beltaine, il 1° maggio, sorgeva poco prima del Sole la stella rossa Aldebaran, la più luminosa della costellazione del Toro. Il colore della stella si intonava al colore del fuoco associato al dio Belenus. Sirio, nella costellazione del Cane maggiore e stella più luminosa dell’emisfero boreale sorgeva eliacamente attorno al primo agosto, in corrispondenza della festa di Lugnasad. La stella più luminosa era quindi associata a Lug, il dio celtico più importante. Comunque, anche se durante le quattro festività celtiche non vi sono fenomeni solari particolari, da un punto di vista del simbolismo, i Celti devono aver ereditato alcune tracce del culto solare del popolo dei megaliti. Basti pensare al Triskell (dal greco “triskelès”, a tre gambe), ornamento simbolico di origine non celtica ma divenuto in qualche modo l’emblema di questa civiltà, se si considera la sua frequenza nelle arti plastiche galliche e soprattutto irlandesi. Questo motivo decorativo era derivato, per estrema schematizzazione, da un tipo di moneta che recava una figura fatta con tre gambe piegate a raggio attorno ad un centro, che simboleggiava il movimento perpetuo del Sole. Anche la tipica croce dei Celti cristianizzati è una derivazione dell’antico simbolo solare. Celebre è la croce celtica del cimitero di Muiredach (X secolo d.C.) a Monasterboice (Irlanda). In questa ottica vi era la dea Belisama, dea femminile che ricopriva il ruolo solare, la dea Sirona, nome che ricorre in alcune iscrizioni galliche e che si riferisce agli astri che brillano nel cielo. Inoltre è citata l’Arianrod della tradizione gallese, eroina del quarto ciclo del racconto epico del Mabinogi. Il suo nome significa “ruota d’argento” e, presso i Galli, il termine “Kaer Arianrod” (città di Arianrod) designava molto probabilmente la costellazione della Corona Boreale, che per la sua forma ricorda il cerchio di una ruota. Infine, come si è visto in precedenza, alcuni fanno notare come anche la costellazione dell’Orsa Maggiore fosse tenuta in grande considerazione dai Galli, i quali la chiamavano “il cinghiale”. Al tempo della conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare, il proconsole romano riconobbe inoltre ai druidi la capacità di prevedere le maree e di come queste fossero state esattamente correlate al moto apparente della Luna nel cielo e al succedersi delle sue fasi. Queste capacità potevano rivelarsi molto utili per i Celti in ambito sociale e militare, ad esempio per la navigazione e per la pesca. Lo stesso calendario rinvenuto a Coligny, essendo basato sul moto lunare, permetteva nella maniera più semplice e naturale la previsione delle maree, la cui reale connessione fisica sarà spiegata solo 2200 anni più tardi dalle leggi gravitazionali di Isaac Newton. 6. L’astronomia dei primi monaci irlandesi. Nel primo millennio d.C. il cristianesimo esercitò una grande influenza sulla società celtica irlandese e su quella romano-celtica della Britannia. Soprattutto l’Irlanda (o Hibernia, come veniva chiamata dai Romani) ebbe un ruolo di primo piano nella diffusione del Cristianesimo nel continente europeo, grazie anche a personaggi come San Patrizio o San Colombano (quest’ultimo fondò nel 612 il monastero di Bobbio, presso Piacenza). Il Cristianesimo si diffuse nella Britannia romano-celtica sin dal IV secolo d.C., convivendo con altre religioni in una società a carattere marcatamente panteistico. Esso fu accolto abbastanza favorevolmente dalla comunità celtica, in quanto il suo carattere spirituale aveva molti punti in comune con la religione tradizionale pagana: basti pensare alla concezione della morte intesa come un passaggio da una condizione di vita ad un’altra e all’immortalità dell’anima, concetti comunemente sostenuti ed insegnati dai druidi. Lo stesso Giulio Cesare, nel De Bello Gallico, attribuisce a queste convinzioni la sostanziale indifferenza al pericolo di morire in battaglia che caratterizzava i guerrieri celtici e che tanto preoccupava i Romani. Uno degli effetti più evidenti della cristianizzazione fu l’introduzione dell’abitudine alla scrittura. I Padri della Chiesa di Roma, al fine di screditare quelle che credevano essere delle vane superstizioni pagane, fecero mettere per iscritto alcuni dei riti celtici, i quali, altrimenti, sarebbero andati irrimediabilmente perduti. Nei monasteri irlandesi erano attivissimi gli scriptoria, luoghi in cui stuoli di monaci copiavano le opere dei classici latini e greci e delle sacre scritture, impreziosendole con bellissime miniature. I primi monaci irlandesi furono, per impostazione culturale, i diretti eredi dei druidi celtici. Essi erano denominati “Martiri Bianchi” perché portavano simbolicamente, come i druidi, vesti di lana bianca, ad indicare la purezza del loro scopo. Introdussero la tonsura, cioè la consuetudine di radersi i capelli, secondo l’antico stile druidico, dalla fronte alla sommità della testa, lasciando però fluire le chiome nella parte posteriore del capo. In somma, questi religiosi conservavano sia il modo di pensare che l’attitudine all’osservazione e allo studio della natura e dei suoi fenomeni, compresi quelli astronomici, tipici dei druidi che da almeno un millennio amministravano il culto pagano. Questi personaggi, per metà frati e per metà druidi, ebbero un notevole interesse per l’astronomia, sia per il loro substrato druidico, sia per il fatto che la Chiesa di Roma aveva stabilito alcuni canoni ben precisi, basati sulle fasi lunari, per il calendario liturgico. La data della Pasqua, ad esempio, era da mettere in relazione alla prima Luna piena dopo l’equinozio di primavera. Numerose furono le testimonianze astronomiche scritte nel primo millennio. Cormac Mac Cuileannain (836-908 d.C.), fu autore del famoso “Sanas Chormaic” (Glossario di Cormac), nel quale è scritto:
In un’altra opera risalente al X secolo, il Saaltair na Rann (Salterio di Quartine), parlando della conoscenza del cielo, si afferma che: “Le persone colte, in Irlanda, devono conoscere i segni dello Zodiaco con i loro nomi nel corretto ordine, e l’esatto mese e giorno in cui il Sole entra in ciascun segno.” Il monaco irlandese Fergal, divenuto poi noto come San Virgilio (o Virgilio il Geometra), prima abate e poi vescovo a Salisburgo, e che fu educato nel monastero di Cainnech, famoso per l’insegnamento dell’astronomia, fu al centro di una feroce disputa con l’anglo San Bonifacio da Crediton relativa alle speculazioni cosmografiche dello stesso Fergal. Il soggetto della disputa finì nelle mani di papa Zaccaria di S. Severina, il quale diede ragione all’irlandese. Bonifacio ricevette una lettera del papa, datata 1° maggio 748, nella quale si dichiarava: “…ci sono sotto la terra un altro mondo e altri uomini e Sole e Luna”. In altre parole, il papa accettava l’idea di Fergal della rotondità della Terra e che essa potesse essere abitata anche agli antipodi. Più o meno negli stessi anni, il Venerabile Beda, benedettino di Northumbria, scriveva esplicitamente “Terra rotunda est”, e questo sette secoli prima di Cristoforo Colombo e della disputa di Salamanca. Un altro illustre astronomo irlandese fu Dungal che, educato nel monastero di Bangor, nella contea di Down, osservò le due eclissi di Sole che si verificarono nell’anno 810 e che, su invito di Carlo Magno, ne trattò in una dissertazione scritta. Dungal spiegò il fenomeno in un contesto geocentrico, quindi con la Terra ferma e con il Sole e la Luna che gli giravano attorno. Ma la sua dissertazione dimostrava che egli conosceva bene il meccanismo con il quale si producevano le eclissi, la misura dell’inclinazione del piano dell’orbita lunare rispetto all’eclittica e la sua variazione periodica. Per tali conoscenze, il monaco Dungal è ritenuto il fondatore di una scuola che si sviluppò fino a dare origine successivamente all’Università di Padova. Questi personaggi, strettamente legati alle concezioni astronomiche dei Celti, diedero il via alla realizzazione di tutta una serie di strutture ed edifici orientati. A Inishmurry, nella contea di Sligo, in Irlanda, si è trovata una grande cinta muraria di quasi 80 metri di diametro, all’interno della quale è posta una chiesa in pietra con l’abside orientato nella direzione del sorgere del Sole alle date delle feste celtiche di Imbolc e Samain (1° febbraio e 1° novembre). Vi è poi il monastero di Church Island, nella contea di Kerry, che si sviluppò in due fasi ben distinte. Intorno all’angolo nord dei resti della chiesa, appartenenti alla prima fase, sono raggruppate 33 sepolture distribuite in modo tale che la direzione cranio-pelvi privilegia una linea il cui azimut è correlato con la direzione del sorgere del Sole alle date delle feste celtiche di Beltaine e Lugnasad (1° maggio e 1° agosto). Le 8 sepolture raggruppate invece intorno all’angolo sud, appartenenti alla seconda fase di sviluppo, sono orientate a 86° di azimut, nella direzione del Sole nascente alla data della Pasqua computata alla maniera celtica, cioè 7 giorni dopo l’equinozio di primavera; equinozio che all’epoca avveniva il 18 marzo (quindi la Pasqua cadeva il 25 marzo). Nello stesso sito vi è quindi la prova di un passaggio da criteri orientativi celtici, più antichi e appartenenti alla prima fase, a criteri orientativi romani (equinoziali), appartenenti ad un periodo più recente o seconda fase. Tombe orientate verso il sorgere del Sole a Beltaine e Lugnasad si trovano anche presso i resti dell’antico monastero di Dumnisk Fort, nella contea di Tyrone, nonché a Tullylish, nella contea di Down, dove alcune citazioni tratte dagli Annali dell’Ulster (scritti a partire dal 500 d.C.) indicano la presenza di una comunità monastica fin dall’anno 809, anno in cui venne registrato un fenomeno astronomico, un “fuoco celeste”, probabilmente una cometa o un’aurora boreale di particolare bellezza. Un fatto curioso è che prospezioni aeree hanno permesso di evidenziare che le tombe cristiane di vari siti cimiteriali dell’Irlanda e della Britannia risultano tutte astronomicamente orientate: lo scheletro è disposto lungo la linea equinoziale (est-ovest), con una deviazione di ± 5°, oppure lungo una linea di azimut tra i 115 e i 120°. La prima orientazione, quella equinoziale, era legata al sorgere del Sole il giorno di Pasqua, computato alla maniera celtica. La seconda orientazione è in accordo con la levata del Sole nei giorni in cui cadevano le feste celtiche di Samain ed Imbolc. Tra le due, quella di gran lunga più importante, come abbiamo visto, era quella di Samain, che inizialmente era celebrata in corrispondenza con la levata eliaca della stella Antares e che in seguito fu trasposta al 1° novembre, in posizione pressoché simmetrica tra equinozio d’autunno e solstizio invernale. Altro fatto curioso è che tutti gli scheletri sono stati trovati con la testa ad ovest e i piedi ad est, in modo che il defunto potesse virtualmente osservare il Sole nascente all’alba. Per i Celti, che si orientavano rispetto al sol levante, il sud (la parte destra) rappresentava la metà chiara del mondo, quella attraversata dal Sole, il lato della vita e della luce. Invece, il nord (che rimaneva a sinistra) rappresentava il lato oscuro e freddo, quello dei misteri e della morte. Ancora oggi, nel parlare comune, si usa dire “una storia sinistra” per indicare una storia di paura e di mistero. Il moto apparente degli astri era tenuto in grande considerazione dai Celti. Dovendo effettuare uno spostamento rituale, essi stavano bene attenti ad effettuarlo da sinistra verso destra, concordemente alla direzione della rotazione della sfera celeste; compierlo in senso opposto avrebbe significato sventura. Plinio il Vecchio riferisce di alcune raccolte rituali di piante, effettuate dai druidi: “Per
cogliere la pianta chiamata selago [molto probabilmente il
licopodio abetino, una pianta usata correntemente in omeopatia], non
si fa uso del ferro; si passa la mano destra sul lato sinistro dell’abito,
come per rubare; è inoltre necessario essere vestiti di bianco, avere
i piedi lavati e nudi, e aver fatto prima un’offerta di pane e vino” La raccolta di questa pianta era la presa di possesso di una forza misteriosa, e per non alterarla bisognava essere vestiti con paramenti sacerdotali, avere i piedi lavati e nudi per un contatto totale con la terra, operando concordemente con essa, e aver fatto un’offerta di pane e vino forse per contraccambiare la preziosità di tale pianta. Lo stesso valeva per colui che doveva raccogliere un’altra pianta che Plinio chiama samolus; probabilmente una pianta palustre:
“Colui che la raccoglie
non deve né guardare dietro di se, né deporre la pianta in altro
luogo se non dove si ripongono le bevande. Egli deve operare con la
mano sinistra.” Anche la letteratura antica irlandese è chiara in proposito, e ancora oggi coloro che si recano in pellegrinaggio ai resti del monastero di Clonmacnoise, nell’Irlanda centrale, sulle rive del fiume Shelton, devono pregare eseguendo tre giri completi del sito in direzione del moto apparente del Sole, cioè da sinistra verso destra. 7. Il retaggio culturale dei Celti. I Celti furono i primi tra i popoli dei territori a nord delle Alpi ad uscire dall’anonimato. La loro storia primitiva fu contrassegnata, tra lo stupore e la paura delle civiltà mediterranee, da sanguinosi conflitti, saccheggi e scorribande. Il mondo classico fu scosso dalla furia dei loro assalti, dal coraggio, dalla baldanza e dalla loro avidità di bottino. Eppure, essi hanno influenzato profondamente la storia anche dal punto di vista artistico e religioso e, per quanto ciò possa sembrare strano, hanno influenzato anche la nostra vita quotidiana. Senza quasi che ce ne rendiamo conto, ogni giorno abbiamo a che fare con il retaggio culturale di questo popolo. Furono loro, ad esempio, a diffondere in occidente l’uso dei pantaloni, chiamati braccae (brache) dai Romani. Inventarono la botte, i bicchieri a calice e i tipici boccali da birra. Furono tra i primi ad introdurre nell’Italia settentrionale la circolazione della moneta, probabilmente ignota al commercio etrusco. L’usanza di commemorare i defunti alla fine di ottobre o all’inizio di novembre e di gettare monete nei pozzi o negli specchi d’acqua per scopi propiziatori, sono pure di origine celtica. In campo letterario, gli ancor oggi famosi racconti del ciclo di Re Artù o celebri fiabe quali “La bella addormentata nel bosco”, “Cappuccetto rosso”, “Cenerentola”, “Il gatto con gli stivali”, sono lasciti più o meno diretti di questa civiltà. Come si è visto, anche in campo scientifico i Celti hanno avuto qualcosa da insegnarci. Nonostante la loro scomparsa, l’eredità della loro cultura e del loro spirito rivive ancora oggi nella nostra società e in ognuno di noi. Il contenuto di questo piccolo saggio sulle conoscenze astronomiche dei Celti vuole essere un riconoscimento del nostro debito culturale nei loro confronti.
1° anno
= 12 mesi =
355 giorni 2°
anno =
12 mesi =
355 giorni 3°
anno =
12 mesi =
355 giorni 4°
anno =
13 mesi =
385 giorni 5°
anno =
13 mesi =
385 giorni Totale
= 62
mesi =
1835 giorni
Le
festività celtiche
Bibliografia
Gaspani,
Adriano – Cernuti, Silvia
Trinuxtion Samoni Sindivos.
L’Astronomia, n° 181
Novembre 1997
Gaspani, Adriano – Cernuti, Silvia
L’Astronomia dei Celti.
1997, Keltia
Editrice – Aosta
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